Appena fuori dall’hotel, Giacco ci accoglie nella sua Palermo. In mattinata ci avrebbe guidato tra strade, piazze e monumenti passando per il mercato, la Cappella Palatina ed il Duomo. Poi distribuisce le radio ed i monoauricolari assicurandosi che ne avremmo avuto cura per “i ragazzi dell’agenzia” ed infine si presenta. E’ palermitano e fa la guida turistica. E sul fatto che fosse palermitano nessuno aveva dubbi, perché solo un palermitano presenta prima la sua città che se stesso.
Ci incamminiamo allora verso il centro storico, con il traffico strombazzante in un orecchio e la voce di Giacco nell’altro: dice che ci aspetta la magnifica Cappella Palatina di Palazzo Reale, appena fuori dal mercato di Ballarò. Non facciamo in tempo ad immaginare ciò che si apre davanti a noi: poco oltre un venditore di banane sulla sinistra di via Maqueda, una babele di banchi, bancarelle e bancali nascosti dai più svariati generi alimentari. Poco ci ricorda il nostro mercato, quello che intralcia l’uscita dei colleghi di via Manzoni al mercoledì ed al sabato e di cui solo i camioncini del servizio di pulizia pubblica testimoniano l’esistenza. Qui un via e vai inestricabile di volti ci compatta come sardine, vendute a buon prezzo poco più avanti insieme a tranci di pesce spada, poveri tonni dimezzati e polipi abbracciati in fila. Le indecifrabili “abbaniate” dei venditori che invitano in dialetto palermitano all’acquisto dei prodotti si confondono con il rombo smarmittato di motorini troppo vicini, gli sfrigolii d’olio, i colpi secchi sui taglieri, lo sciabordio d’acqua che trabocca dai secchi di pescato.
Guardiamo le bancarelle come vetrine, quasi stentando a riconoscere in lucide forme rosse i pomodori, in lunghissimi tubi le zucchine, in distese di muschio verde sgargiante i cavolfiori. Pochi passi più avanti, grossi tagli di vitello appesi a ganci metallici fanno da quinta ai truculenti movimenti di un macellaio, mentre la milza riposa nel pentolone ed il pane attende coperto in una cesta. Giacco coglie l’occasione per farci notare, nell’attento dissanguamento delle carni e nel recupero degli scarti, la preziosa influenza ebraica divenuta parte integrante della cultura siciliana. Indica poi cumuli di spezie, sacchi di mandorle e datteri che tradiscono il passaggio di fenici, greci, latini, spagnoli, arabi. Ballarò, dove il profumo avvolgente della parmigiana è arricchito dagli aromi pizzicanti di levante, è quel luogo in cui i banchetti di mercanzie delle più svariate provenienze stanno benissimo alla distanza di appena una spanna tra loro, in un’insospettabile fusione tanto riuscita da sembrarci sfacciata. Sfacciata quanto gli edifici cristallizzati che si susseguono appena rivediamo il cielo e la confusione di voci accavallate si allontana. Non c’è uno tra noi che non sia rimasto perplesso almeno qualche secondo con il naso all’insù, rivolto ai balconcini arrugginiti di un meraviglioso palazzo barocco. Allora, travolto da sguardi interrogativi, Giacco racconta degli ottant’anni in cui il sonnifero dell’immobilismo e della mancanza di fondi ha addormentato Palermo, sfuggendo alla rivoluzione urbana ed ai suoi parallelepipedi in cemento armato. Sostiene che sia stata una grande fortuna ed il nostro stupore di fronte all’inconsueta bellezza sbattuta e sfiorita sembra dargli ragione.
Percorriamo l’ultimo tratto di strada sotto le irresistibili ombre delle palme del giardino di Villa Bonanno e, dopo una breve attesa sotto ad un porticato affrescato, entriamo nella Cappella. Le pareti mosaicate ci avvolgono e cala un silenzio imperfetto di ovattato stupore. Come immersi in un acquario d’oro, i sensi ed il tempo si allentano: più superficie copriamo con lo sguardo, più sembriamo disorientati. Tra iconografie cristiane, arabe, pagane e bizantine si distinguono le lettere di almeno tre alfabeti. Il profilo romanico dell’architettura è appena riconoscibile tra il pavimento arabeggiante, le colonne in granito egiziano ed il soffitto a stalattiti. I tendaggi persiani simulati sulle pareti esterne ci fanno sentire per un attimo invitati al ballo nella splendida villa di Tomasi di Lampedusa a Donnafugata, mentre la bellezza dei mosaici accorcia la distanza da casa ricordando Ravenna. Sotto all’enorme Cristo Pantocratore dell’abside risentiamo la voce di Giacco nell’orecchio che, ripercorrendo ogni riflesso dorato, ci porta a riflettere anche sul valore di attualità della Cappella Palatina. E’ infatti, nel suo essere testimonianza della riuscita fusione di Oriente ed Occidente e specchio della politica del grande sovrano Ruggero II, uno straordinario manifesto di tolleranza, da cui abbiamo da imparare forse più oggi di quanto ne avessimo ieri. Con quest’ultima riflessione, concludiamo la visita, ma è solo lo zampillare di Fontana Pretoria a farci abbandonare la Cappella anche con la mente. Il gorgoglio vivace dell’acqua diventa presto quello delle voci animate dei ragazzi del liceo classico Vittorio Emanuele II che si godono l’intervallo sparsi tra i bar. Amara è la campanella per loro, amarissimo il momento in cui ci riuniamo all’interno del Duomo davanti alla tomba di Don Pino Puglisi per noi. Abbiamo letto e discusso insieme della storia del parroco che ha perso la vita “a testa alta”, tentando di strappare i giovani di Brancaccio alle grinfie della mafia che ne svaluta la dignità umana.
ll sole di mezzogiorno entra dal lucernario dissipando le ombre ed un raggio cade sulla meridiana: a quest’ora la mafia fa meno paura. La “ civetta” di Sciascia teme la luce della verità .
Livia Robuschi