Il tempio aveva una forma triangolare, con le cupole che si facevano sempre più alte verso il centro, e vicino alla punta ferivano il cielo con quello che sembrava il pungiglione di un’ape. Una corazza di fiamme avvolgeva l’edificio, come un abito di veli che si contorceva nel vento, e produceva una sinfonia di sussurri e sogghigni soffocati. 

L’aria era bollente e mi si appiccicava alla pelle: mi sfregavo le braccia per cacciarla via, ma quella melma viscida non ne voleva sapere di staccarsi. Strinsi i denti: se solo avessi avuto con me una spada, una dannata spada, anche corta e arrangiata che fosse, avrei sfidato a duello quei mostri sghignazzanti. “Oh sì, bravo stupido. Pensi che servirebbe a qualcosa?” 

Se anche ci avessi gettato sopra litri e litri d’acqua, l’incendio non si sarebbe spento: era fuoco divino, quello. Anche la cera era divina, eterna, e non si rovinava. D’altronde il fuoco non era collegato alla vita di nessuno, e veniva alimentato dai corpi e le anime dei morti che venivano bruciati al suo interno. “Li odio, li odio, quei farabutti degli Dei!”

Mentre passavo vicino al tempio, accelerai il passo. “Sto scappando, come sempre. Tornerò mai a casa?“  Iniziai a fare respiri profondi. “Ma là mi sembra di soffocare, là devo litigare da solo, là devo prendermi la responsabilità della famiglia. Non che l’abbia mai fatto, ma… “

Agitai la testa. “Io? Badare ai miei fratellini e anche ai miei genitori? Io? So badare a malapena a me stesso!“ 

Mi voltai a guardare il tempio, di nuovo: adesso le fiamme si agitavano nella mia direzione e mi indicavano, mi accusavano. Il loro crepitio aveva il sapore della vendetta. Trasalii e iniziai a correre, a correre più forte che potevo, ma non sarei mai riuscito a scappare. Non da me stesso. Era stata tutta colpa mia. Era stata tutta colpa mia. 

Più gli effetti dell’antidoto rendevano i miei genitori apatici, più io mi rifugiavo dal nonno. Gli raccontavo tutto, in un fiume di parole: i miei battiti aumentavano, i miei nervi diventavano tesi, e le parole che pronunciavo mi facevano rabbrividire al solo suono. Ma continuavo a parlare, perché dovevo sfogare quel prurito che aumentava e aumentava, quel macigno che diventava più pesante ogni volta che cercavo di ingoiarlo. 

Il nonno stringeva i braccioli della poltrona e contraeva la mandibola. Le sue narici apparivano dilatate e le sue guance rugose avvampavano, ma annuiva sempre. Certe volte socchiudeva gli occhi e si massaggiava le tempie. Io mi bloccavo. – Vai avanti, vai avanti, dimmi tutto. – mormorava, appoggiando la fronte alla mano. 

Una volta terminati i miei sfoghi, sospirava. – Non fare come loro, Ethan. Tu sei diverso. 

Poi suonavo il violino per lui: le emozioni mi saltavano addosso in branco, e affondavano i denti nella mia carne. Più scendevano in profondità, più il dolore diventava acuto, ma era l’energia che mi muoveva le braccia e le dita, era l’anima della mia musica. Produceva una melodia unica, potente, incisiva. Io e il violino ci fondevamo in una cosa sola, e lui diventava parte della tenaglia che mi stringeva il cuore. Più mi lasciavo andare, più sprofondavo in una dimensione dove esistevamo solo io e lui,lui e io, e la tenaglia allentava la presa. 

Avevo appena compiuto quattordici anni, quando il nonno iniziò a indebolirsi: mangiava sempre meno e, mentre gli parlavo della mamma, la sua espressione non riusciva più a nascondere l’afflizione. Non si alzava mai dalla poltrona e non usciva dalla sua casa, che adesso si scioglieva molto più in fretta. Era la vicina a portargli il cibo, a cucinare per lui e pulire la casa. Qualche settimana dopo abitava con Ambrosia, la vicina, perché le pareti della sua abitazione si erano deformate in cumuli giallognoli e sempre più morbidi. Tra poco si sarebbe sciolta del tutto. Lui rimaneva sdraiato a letto tutto il giorno. E poi quel pomeriggio… 

Aveva la testa appoggiata al cuscino. I suoi occhi brillavano, ma allo stesso tempo erano spenti: emanavano una luce debole, come il riflesso di un chiarore lontano. Lisciava il tessuto del lenzuolo con un ritmo lento e costante. Le sue dita vacillavano e indugiavano in ogni movimento. 

Nonno… Vuoi che suoni qualcosa per te? 

Dopo, Ethan. Adesso devo dirti una cosa. 

Mi sedetti sul bordo del letto e lui prese la mia mano in entrambe le sue, racchiudendola in un involucro tiepido. – Ethan, caro ragazzo… –  Il fiato gli uscì dal petto con un lungo sospiro, ma  sorrise. – Ti avranno già detto che le anime dei morti sopravvivono nel fuoco degli Dei, e che lo alimentano, ma forse non sai che possono tornare a riempire le altre persone di sentimenti. Io me ne sto andando, ma verrò da te. Sarò tutte le fiamme nel tuo cuore. 

Il battito mi martellava in gola. Agitai la testa. – Cosa stai dicendo? Cosa stai…? 

Adesso suoneresti per me? 

Avevo le mani che tremavano, ma appoggiai il violino sulla mia spalla e afferrai l’archetto. Mi sforzai di fare un respiro profondo e iniziai a eseguire una melodia che conoscevo a memoria. Era abbastanza vivace: almeno avrebbe sollevato l’atmosfera da quel velo di malinconia che la tendeva sempre di più, come la corda di una  fionda. 

Ma a un tratto le mie dita, che di solito, nei brani che conoscevo bene, si muovevano da sole sulle corde, si sconnessero alla mia memoria. Anche la mano con cui tenevo l’archetto fece lo stesso. Si ribellarono al mio controllo. Iniziarono a improvvisare, a seguire l’istinto, a imitare gli sbalzi di quel percorso sulle montagne russe che stavo facendo dentro di me. 

Quella melodia era forte, arrabbiata, graffiante, stridula. Ma poi, man mano che mi svuotavo dalle mie emozioni, si ridusse a un motivetto delicato. Il nonno accarezzava le lenzuola al ritmo della mia musica e ondeggiava un po’ la testa, cullato dalle note. Anche l’energia dentro di lui sbiadì piano piano, fino a spegnersi. A quel punto chiuse gli occhi. Per sempre. 

Se fossi stato di fronte a casa sua, avrei visto un fuocherello che sfiorava il terreno e si spegneva. Aveva accorciato la vita del nonno come una candela ma, dopo essersela divorata tutta, anche lui era soffocato. 

Un anno dopo ero di fronte al tempio. Stringevo i pugni e, a furia di mordermi l’interno della guancia, avevo la bocca piena di sangue. 

Mamma, mi serve un violino per il rito. – avevo mormorato quella mattina, entrando in cucina. 

-Non abbiamo i soldi per comprartene un altro. 

Avevo aggrottato la fronte. – E allora? Cosa suono? Ma soprattutto, cosa sacrifico? 

Non ha importanza. – Aveva alzato le spalle. – Rubalo, se ne hai così bisogno. 

Mi ero alzato in piedi. La sedia, spostata di scatto, aveva emesso uno stridio. – Eh? Io? Rubare? Mi hai sempre detto che era sbagliato, che non era giusto, che non dovevo farlo!

Lei aveva inarcato appena le sopracciglia, ma subito dopo il suo volto era tornato inespressivo. – Allora usa quello di tuo nonno. 

Così avevo fatto. Roan e Grimbald erano rimasti a casa perchè, se non c’era un violino per me, non c’era nemmeno per loro. I miei genitori invece erano stati scomunicati perché bevevano l’antidoto. 

Adesso tenevo il violino appoggiato sulla spalla e accarezzavo le sue corde con l’archetto. Sarebbe stata l’ultima volta che lo suonavo, ma non lo stavo facendo come meritava: la musica dei riti esprimeva sottomissione e umiltà nei confronti degli Dei, ma era sempre troppo debole. Invece il mio violino era fatto per fermare il tempo e scappare via con la sua musica, sempre impetuosa come una tempesta. Non potevo separarmi da lui, ma il nonno credeva nell’importanza della religione: avrebbe voluto che lo sacrificassi, pur di obbedire alle leggi sacre. 

Tutti i bambini e i giovani intorno a me suonavano il violino. Davanti a noi il sacerdote, avvolto dalla sua tunica candida, agitava le braccia in movimenti morbidi per dirigere la nostra piccola orchestra. Dietro, invece, si erano radunati gli adulti: ognuno reggeva tra le mani una candela accesa. Due di loro avanzarono e raggiunsero l’enorme candelabro davanti al tempio. Accostarono le fiammelle delle candele vicino agli stoppini, che si accesero in un fuocherello scoppiettante: tutti gli altri ripeterono l’azione e, a poco a poco, le candele spente si accumularono ai piedi del candelabro, che adesso divampava con la potenza di un rogo. 

La sua struttura si divideva in tre braccia. La candela a sinistra rappresentava il Dio Aidan e sosteneva un vero e proprio vortice di fuoco, che si dimenava e si avvolgeva su sé stesso. Era un buco nero, oscuro nella sua luce infernale. 

Quello a destra invece era dedicato a Flint, il Dio della pietra focaia che componeva le nostre colline. Quando entrava in contatto con altre pietre, questo minerale dava origine a fuocherelli che scioglievano la cera in ruscelli liquidi. 

Al centro regnava Phoenix. Il fuoco si modellava nei lineamenti di un uccello con le ali spalancate. Il cuore mi balzò in gola. Smisi di suonare e iniziai a guardarmi intorno, ma gli altri ragazzini erano concentrati sulla musica. Gli adulti osservavano il candelabro, ma senza stupore. “Sono l’unico a vederlo?”  

Le sue piume diventarono di un rosso porpora. Era una fenice. Ora i suoi tratti apparivano più nitidi, la forma delle piume più definita. I suoi occhietti rotondi puntavano nei miei. Rabbrividii. “Sto impazzendo, sto impazzendo!” 

Indietreggiai di qualche passo, ma andai a sbattere contro un altro ragazzo. Mi fulminò con lo sguardo. – Stai attento a dove metti i piedi, idiota. 

Scusa.

Ricambiai l’occhiata di brace, ma la mia attenzione tornò subito al candelabro. 

La fenice sbatté le ali, spiccò il volo e si alzò nel cielo fino a sparire dietro le nuvole. Le fiamme sulla candela si rigenerarono in un istante. 

I miei battiti erano mine: mi esplodevano nel petto uno dopo l’altro. Obbedendo al cenno del sacerdote, tutti i bambini e gli adolescenti si misero in fila e, quando arrivò il loro turno, gettarono lo strumento in pasto alle fiamme. Mi premetti il violino contro il petto: non importava se mi fossi spezzato le costole a furia di stringere, non importava. Non mi sarei mai separato da lui. 

Qualcuno mi spinse avanti. “Maledizione, adesso tocca a me!” Ansimai. Tutti gli occhi erano puntati su di me e mi schiacciavano i polmoni. Mi voltai: a spingermi era stato il ragazzo a cui ero finito addosso per sbaglio. Aveva il sopracciglio destro sollevato in un’espressione seccata. 

Gli strappai via il violino e lo sbattei per terra fino a quando non fu ammaccato e spezzato, continuando a reggere il mio strumento con l’altro braccio. Ma l’energia di uno solo non era abbastanza, allora lo calpestai e ci saltai sopra con tutta la mia energia. Con un calcio lo lanciai nel fuoco del tempio. 

Mi girai verso il ragazzo strafottente. – Soddisfatto, adesso? – Sorrisi. – Ho fatto il mio sacrificio! 

Lui era paralizzato, con la bocca dischiusa. Tra la folla si scatenò un mare di urla, e un gruppo di uomini mi piombarono addosso, mi afferrarono per le spalle e mi trascinarono via. Mi dimenai e provai a opporre resistenza, ma erano troppo forti. La gente mi fissava con gli occhi sgranati e agitava la testa in segno di disappunto. Il volto del sacerdote diventò rosso come lava bollente. I bambini mi additavano. – Chi è, chi è quel brutto cattivo? 

Perfino Ambrosia stringeva le labbra, con le narici dilatate. Mio nonno non sarebbe stato affatto fiero di me. – Sarà stato pagato dai creatori dell’antidoto per sabotare i nostri riti. Che vergogna! – gridò qualcuno. 

Ero un disastro. Ero un mostro. Spaventavo i bambini. Facevo diventare rossi d’indignazione gli adulti. Scoppiai a ridere. – Siete tutti degli stupidi, sapete? Perché state ancora qui a pregare gli Dei, dopo tutto quello che è successo? Loro sono stati in poltrona a godersi lo spettacolo! – Mi bruciava la gola. – Scommetto che si stanno anche divertendo, quei vermi schifosi. 

Uno degli uomini forzuti mi mise una mano sulla bocca, per zittirmi, ma gli morsi le dita e riuscii a liberarmi. – Mi sentite, Dei? Mi senti, Phoenix? Dovrei venerare degli Dei che non fanno un fico secco per fermare chi beve l’antidoto? Dovrei? Vendicatevi, dannazione! 

Sferrai gomitate a destra e a manca, ma quegli odiosi sbirri che mi tenevano fermo non batterono ciglio. – Fate qualcosa, se siete davvero delle divinità. – Ansimai. – Qualsiasi cosa! 

La fenice planò nel cielo, verso di me: i suoi artigli erano piegati in quello che assomigliava a un uncino pronto ad arpionarmi, il suo becco era ancora più acuminato e i suoi occhietti luccicavano famelici. 

Presi gli sbirri di sorpresa e li spinsi via, ma solo per scappare ancora più lontano. Il cuore mi galoppava nel petto. Faticavo a respirare e mi bruciavano i polmoni. La fenice mi inseguiva. L’avevo fatta arrabbiare, e ora ne avrei subito le conseguenze. Venni scomunicato. Il nonno era sempre con me, come aveva promesso, ma la sua delusione mi mordeva il cuore. 

Mi lasciai cadere sotto un albero. Mi presi la testa tra le mani e iniziai a scuoterla avanti e indietro per liberarmi dei ricordi. “Oh, Dei. Se solo fossi stato meno stupido… Se solo non mi fossi sempre lamentato con il nonno dei miei problemi come un bambino frignone, magari sarebbe ancora vivo. L’ho fatto morire di dolore, e poi, poi… Ho di nuovo combinato un disastro. “ 

Iniziai a mordicchiare le pellicine delle mie nocche sbucciate. “ Se non avessi gridato contro gli Dei, non avrebbero bruciato tutte le statue del cimitero. Ora si stanno vendicando davvero, ed è solo colpa mia! “

Non sarei stato l’unico a pagare il prezzo dei miei errori. “No, no, no. Non è giusto.”