La musica della fine
Basta ripensare al passato. Se andavo avanti così, sarei finito come tutti i poveri idioti di Cartagine. Mi voltai: la città, in lontananza, era sormontata dal fuoco. Mi sembrava di vedere le sue strade deserte, i suoi occhi spenti nelle finestre sbarrate, come se fosse andata in letargo insieme a quei rammolliti dei suoi abitanti.
All’inizio la gente beveva l’antidoto per questioni di soldi, ma poi aveva iniziato a farlo per dimenticare il dolore. Meglio non soffrire per tua madre che ti tratta come se non fossi più suo figlio. Meglio non soffrire per tuo padre, che lavora tutto il giorno ma non sa più perché, e quando vincerà la forza dell’abitudine smetterà di fare anche questo. Meglio non soffrire per i tuoi fratellini, che d’ora in poi dovranno arrangiarsi da soli. Già, molto meglio. Ma anche da codardi.
Ricominciai a camminare. Ficcai le mani nella tasca centrale della felpa: adesso che ero lontano dalle fiamme della città, l’aria stava diventando fresca. Seguii un sentiero tracciato tra la rada vegetazione, con qualche arbusto qua e là che sembrava un candelabro, vestito di un cappotto di cera che si squagliava sui rami. La stradina era resa visibile, con tutte le sue curve, dalla tonalità più scura e la consistenza liscia che aveva assunto a furia di essere calpestata.
Perfino i miei passi erano soli, lenti, stanchi di battere il loro ritmo stentato. E quando sarei arrivato al cimitero, sarebbero stati ancora più soli. Mi aspettava un mare di statue con gli occhi ma senza sguardo, con il sorriso ma senza gioia, con il corpo ma senza anima. E ai loro piedi solo lastre di cera con i loro nomi e le date di nascita e morte. E poi nessuna traccia del fuoco, nessuna traccia della distruzione, nessuna traccia del declino… Solo una piatta, infinita e bianchissima eternità. Insomma, tutti i miei peggiori incubi in un colpo solo.
Quelle persone erano già state divorate una volta dalle fiamme: a cosa serviva una seconda? Adesso potevano vivere per sempre. “Anche la mamma diventerà così, alla fine? E il papà? E lo faranno… Ancora prima di morire?”
Aumentai il passo. Cosa mi aspettavo? Di vederli già là, in mezzo agli altri?
Mi bloccai di scatto: il mio petto venne attraversato da una fitta, acuta come le note del violino quando stonava. Iniziai a correre. “Oh no, ti prego, no, no, no… ” Accelerai ancora. “No!”
Più mi avvicinavo al cimitero, più lo scoppiettio si faceva intenso,e più il luccichio dei lapilli e le danze del fuoco diventavano nitidi. Anche il recinto stava bruciando. I miei muscoli fremevano di tensione.
Mi gettai tra le statue e iniziai a guardarmi intorno, in ogni direzione, in cerca del suo viso. Ma trovai solo occhi vuoti, che si ammorbidivano in quelle che assomigliavano a espressioni ma non le erano. Alcune statue erano già ridotte a mezzi busti che galleggiavano in pozze giallastre, come se fossero in ginocchio, e pregavano. Ecco perché i loro occhi apparivano così vacui… In adorazione.
-Basta, basta venerare quei luridi, sporchi schifosi degli Dei! – Sollevai i pugni in aria, come per colpirli. Che sciocco. Me li schiacciai contro il petto, che si alzava e si abbassava per il respiro irregolare. – Adesso basta! Non hanno il diritto di uccidervi ancora, non possono toglierci anche ciò che rimane di voi… Non possono.
Mi bruciava la gola. La mia stessa voce mi graffiava. Lingue incandescenti si alzavano intorno a me e si agitavano veloci, impazzite, come braccia che si contorcevano in mille posizioni. Mi alitavano in faccia il loro fiato puzzolente, che disegnava nuvole di fumo e mi offuscava la vista.
– Gli Dei sono proprio come quegli ipocriti dell’antidoto! – Mio nonno era lì, davanti a me, avvolto da un mantello di fiamme. Se solo non fosse stato tutto bianco e di cera, sarebbe sembrato vivo. No,no,no. Mi morsi l’interno della guancia. – Traditori.
Aveva le mani protese verso di me, con i palmi rivolti verso l’alto che aspettavano solo che ricambiassi la stretta. Il suo sorriso era diventato malinconico, e la sua bocca era dischiusa come se dovesse dirmi un’ultima cosa.
Il fuoco era la sua aurea, ma anche una barriera. Non potevo stringerlo, così. No, no, no.
– Nonno…- ansimai. – Nonno!
Sì, sì che potevo stringerlo, invece. – Arrivo, maledizione, ovunque tu sia andato. Vengo con te, ho deciso!
Spalancai le braccia e corsi verso di lui, annullando quei pochi metri che ci separavano. Basta. Gli Dei erano degli ipocriti, quelli che creavano l’antidoto erano degli ipocriti, quelli che lo bevevano anche, i miei genitori anche. Basta. Il mondo faceva schifo. Non aveva senso rimanere. Il nonno bruciava, e io sarei bruciato con lui.
Le sue mani stavano solo aspettando le mie, ma io gli avrei dato di più. Gli avrei dato tutto il mio corpo. Tutto me stesso. Ero a un passo da lui, a un respiro dal non respirare più, e il suo calore già mi scottava la pelle.
Il fumo dietro di lui mi scese addosso e mi respinse. – No! – urlai.
Una forza esterna mi sbalzò all’indietro e mi fece sbattere la schiena contro il terreno. L’impatto mi fece rabbrividire fin nelle ossa, e nel petto mi si aprì una voragine. Allungai le braccia verso la statua del nonno. Rivoli di cera liquida gli percorrevano le guance. – No, no, per favore… – singhiozzai. – Smettila di piangere!
Provai ad alzarmi, ma caddi di nuovo sulle ginocchia. Quella stessa forza che mi aveva spinto all’indietro, mentre cadevo, aveva aperto un varco tra le statue incendiate, ora ammassate l’una vicino all’altra ma lontane da me.
“Non ci sono riuscito, non ci sono riuscito! È stata colpa mia. E adesso? Perchè non riesco a riprovarci, dannazione?”
Tirai un pugno sul terreno. Ma gli occhi del nonno luccicarono, e continuavano a fissarmi anche mentre il suo petto si riduceva a una pozzanghera liquida, e poi il collo, la gola… Mi pietrificai e il dolore diventò un eco senza fine nel mio petto. Gridai, gridai rinunciando alle parole, solo per tirare fuori il boato che mi esplodeva dentro, e mi graffiai le guance con le mani.
Il nonno continuava a guardarmi. I suoi occhi parlavano. – Vai avanti, vai avanti e non guardare indietro.
Visto che ero già in ginocchio, avrei dovuto pregare. Ma gli Dei erano dei traditori, e adesso ci stavano distruggendo, stavano calpestando i brandelli di Cartagine rimasti dopo l’arrivo dell’antidoto. Avevo la nausea. E poi non ero più capace di farlo. “Addio, addio, addio. Ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene.“ Questa era la mia unica preghiera, la mia unica fede.
Tremavo. Mi sfregai la spalla destra, come se lì ci fosse ancora la mano del nonno e io potessi premere le mie dita sulle sue, e iniziai a dondolarmi come un bambino, avanti e indietro, avanti e indietro. Mi accovacciai su me stesso, con gli avambracci sulla cera del terreno e la testa tra le mani, i polpastrelli tra le ciocche di capelli. Alzai lo sguardo e incontrai il suo, per l’ultima volta.
Aveva un sorriso sempre più ampio e luminoso. Forse il fuoco non lo stava uccidendo, ma gli stava ridando la vita: era nei sentimenti che lui credeva, era dai sentimenti che voleva esser portato via, e stava succedendo proprio questo.
Le fiamme continuarono ad alzarsi e abbassarsi come le canne di un organo, suonando un brano lacerante. Era la fine, ma c’era la musica. C’era la musica dentro di me. Il violino mi aspettava al di là della staccionata, dove l’avevo lasciato prima di entrare, ma cantava la sua melodia anche senza di me.