DA SOLO
Il loro ronzio mi fischiava nelle orecchie, come la risata delle fiamme quando divorano il legno. – A cosa stai pensando, Ethan? Sembri sempre così svampito, come se fossi su chissà quale nuvola… – mi dicevano tutti, da quando ero piccolo. Ma l’unica nuvola che mi circondava, adesso, era quel maledetto sciame, con quelle bestie inferocite che mi fissavano con i loro occhietti famelici e non vedevano l’ora di ficcarmi i pungiglioni nella carne. “Ci siete riuscite, brutte streghe. Contente adesso?”
Mi trascinai fino a casa, e crollai davanti alla porta. Le punture erano aghi roventi che mi trafiggevano il corpo. Rimasi sospeso in un mondo di fuoco, in cui strani mostri mi cospargevano la pelle di braci e mi lasciavano contorcere per il bruciore, sorridendo soddisfatti.
-Sono solo allucinazioni, Ethan, stai tranquillo. – sussurrava una voce dall’esterno. Una mano fresca mi scostò i capelli dalla fronte. – Sarà per colpa della febbre.
“Ditemi che è la mamma, ditemi che è la mamma, dannazione!”
Ma le mie palpebre erano macigni: non riuscivo a tirarle su. Il mio occhio destro era molto più gonfio dell’altro. Alla fine, per guardare la soccorritrice, aprii quello. Ero steso sul mio letto e Ambrosia era chinata su di me, con le guance più arrossate del solito e gli occhi luccicanti. Era sempre indaffarata con i guai degli altri, quella donna: fino a un momento prima sostenevo che fosse una gran ficcanaso, ma ora mi sarei rimangiato tutto.
“E la mamma? Non viene lei a curarmi?”
Gli aghi mi sprofondarono dentro, di nuovo. Mi dimenai. Un liquido appiccicoso, che più che sudore sembrava lava, mi scese sulla fronte.
-Stai fermo, Ethan. Così non riesco a medicarti quelle brutte punture! – Premette le dita sul mio braccio e mi stropicciò la pelle verso un centro immaginario. – Ecco, adesso ho tolto un pungiglione. Ma cosa ti è venuto in mente? Lo sai che andare alle sorgenti di cera è pericoloso: quel posto è pieno di alveari…
Il mio inferno mi catturò, di nuovo. Vedere un bel diavoletto armato di forca, corna e coda sventolante sarebbe stato un sollievo, in confronto, invece venni circondato da insetti che si univano a formare un enorme corpo sibilante. “Tua madre se ne frega di te, se ne infischia! Non verrà nemmeno a vedere se sei ancora vivo. Povero illuso!”
Al posto del sangue, nelle vene, mi scorreva il veleno. Rimasi intrappolato in quel posto per un’eternità. A un certo punto venni svegliato dal fruscio delle lenzuola: il mio fratellino si infilò sotto e si sdraiò di fianco a me.
-Grimbald… – mormorai.
-Ethan? Oggi non era il tuo turno di dormire nel letto con me, ma Roan ha accettato di stare sul divanetto al posto tuo.
Dischiusi il mio occhio buono. Grimby sussultò. – Allora Ambrosia aveva ragione: sei proprio messo male!
-Zitto. Non sono messo male.
Lui agitò la testa e l’appoggiò al cuscino. Chiuse gli occhi, e io lo imitai. La mamma non sarebbe mai venuta a curare quel disastro di suo figlio, non si sarebbe più preoccupata, non si sarebbe più spesa per qualcun altro. Agguantai quel furfante di mio fratello e, anche se la mia pelle era già una piastra bollente, lo strinsi forte. Quel mostriciattolo era adorabile, quando non scalciava e non mi mordeva nel sonno pensando che fossi una bistecca già cotta e cucinata. Gli scompigliai i capelli, così ramati da riflettere l’ondata di lapilli che mi affogava il cuore.
Adesso le punture mi pizzicavano e basta, come faceva l’archetto con le corde del violino. Scostai le coperte e mi trascinai in cucina, dove la mamma stava prendendo i vasetti di miele posati sul tavolo e li stava sistemando nella credenza. La sua pelle era bianca come le pareti della casa, ma anche il suo sguardo era bianco, bianco come il vuoto che aveva divorato ogni sua emozione. Aveva gli occhi spenti, i lineamenti distesi in un’espressione neutra, e i suoi movimenti erano meccanici: l’energia che ci metteva era ben dosata, senza alcun eccesso o difetto che potesse trasmettere un qualche sentimento. Ormai le restava solo l’abitudine, ormai le restava solo un minimo di volontà per compiere i gesti quotidiani.
Appoggiai una spalla alla porta, perché in piedi non ero molto stabile. – Guardami, dannazione! Quanto vuoi andare avanti a ignorarmi, ancora?
Lei alzò lo sguardo dal tappo del vasetto che stava avvitando, e sbatté le palpebre: le sue iridi erano zaffiri sbiaditi, e mi attraversavano come se non ci fossi nemmeno. – Che c’è, Ethan?
Indicai il mio occhio gonfio e le mie braccia piene di segni rossi. – Ecco che c’è!
Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si concentrò di nuovo sulla sua occupazione, ma ebbi uno scatto di nervi: andai là e le strappai il vasetto dalle mani, poi lo sbattei sul tavolo, lontano da lei.
-Mi sono trovato in mezzo a uno sciame di api che mi hanno riempito di punture, sono collassato sul tuo maledetto zerbino, e scommetto che non te ne sei neanche accorta! Lo sapevi che ero a letto con la febbre? Lo sai che mi brucia tutto?
La mamma fece per andare a riprendersi il vasetto, ma io le sbarrai la strada. – Hai avuto proprio una bella idea a bere l’antidoto. Sei diventata solo una statua arida, uno schifo di statua che non capisce un fico secco!
Lei inarcò le sopracciglia. – Cosa c’entra il fatto di capire? L’antidoto indebolisce i sentimenti, non la capacità di pensare.
Strinsi i denti e iniziai a sfregarmi la spalla sinistra, come se quello fosse il bottone da premere per eliminare lo sciame di api che mi ronzava nelle orecchie. – Oh sì, invece, eccome. Cosa credevi di ottenere? Pensavi di farci avere una vita migliore? Abbiamo ancora un solo letto per tutti e tre, abbiamo ancora le tasche vuote, e per di più non abbiamo dei genitori.
L’espressione della mamma rimase inalterata, il suo respiro regolare, le braccia ferme lungo i fianchi. Non come me, che tremavo di collera. “Sai una cosa, Ethan? Se lei schiaccia giù i sentimenti, tu devi lasciarteli sfuggire di mano, tu devi lasciare che ti prendano a morsi come quelle api infuriate.“
-Ma voi ce li avete ancora i genitori. Io sono qui, e papà è al lavoro.
Si sporse di nuovo per afferrare il vasetto, ma io lo presi e lo lanciai contro la parete: il vetro si spezzò in mille frammenti, producendo un’esplosione fragorosa, e il miele iniziò a colare sul muro in rivoli lenti e densi. In confronto alla cera della parete, aveva una tonalità più scura. Oh sì, che bello quando le cose esplodevano. Che bello quando l’equilibrio scoppiava e rimanevano solo i suoi brandelli sparsi ovunque, e poi che bello calpestarli, che bello distruggerli. Se solo avessi potuto farlo con la sua apatia…
-Vuoi sapere una cosa, mamma?- Feci una smorfia di disgusto. – Lo sapevo bene che andare alle sorgenti era pericoloso, lo sapevo bene che le api mi sarebbero saltate tutte addosso, ma l’ho fatto apposta. Oh sì, non me ne fregava niente di farmi male. L’ho fatto per farti impazzire, per svegliarti dal tuo maledetto letargo, per farti scoppiare il cuore!
Ansimai. Stavo urlando. Anzi, stavo sprecando la voce. Stavo litigando da solo. Tanto lei non mi avrebbe mai ascoltato… Serrai i pugni fino a conficcarmi le unghie nei palmi, poi assestai un colpo secco al tavolo di legno, che scricchiolò. O forse scricchiolarono le mie ossa.
-Ma a quanto pare non mi sono fatto male abbastanza. Cosa devo fare, eh? Buttarmi giù da un dirupo? Devo lasciarci le penne, vero?
La mamma alzò la testa e incontrò il mio sguardo furente: per un attimo un lampo le spezzò le iridi, come una stella cadente, e le sue mani tremarono. Ma durò solo un istante, perché si aggrappò al tavolo e tornò ferma come sempre. – Sei uno stupido, cosa vuoi che ti dica?
Lo mormorò appena. Lei sì che non sprecava la voce.
-Cosa voglio che tu mi dica? Che sono tuo figlio e non te ne freghi di me, tipo? Come ti sembra?
Il mio occhio destro era sempre più gonfio, adesso anche di lacrime. Mi morsi l’interno della guancia e il sapore del sangue mi riempì la bocca.
-Niente, non mi sembra niente.
La mamma si sedette e si posò la guancia sul pugno chiuso, inclinando un po’ la testa per far scivolare lo sguardo lontano, oltre la finestra. “Dannazione, quanto assomiglia a una bambina annoiata!“
Sbattei di nuovo il palmo sul tavolo. – Tu non sei niente!
Seguii la direzione in cui correvano i suoi occhi: sul davanzale si trovava una fila di candele, con lingue di fuoco che danzavano e avvolgevano lo stoppino, mentre la cera scendeva in sentieri contorti, che alla fine si depositavano sul piattino in macchie giallastre. Sogghignai: sembrava uno scherzo, un gioco del destino. Perchè me le ero trovate davanti proprio adesso?
Noi abitanti eravamo proprio come quelle candele, corrosi piano piano dalle fiamme, fino a toccare il fondo. Le nostre vite erano collegate alle nostre case, ma le nostre case erano sormontate da fuocherelli, che rappresentavano le emozioni e scioglievano le pareti, piano piano durante la giovinezza e sempre più veloce man mano che si invecchiava. Alla fine, le fiamme si soffocavano sul terreno e soffocavano anche la vita di chi aveva fondato quella casa. Tutti i suoi conviventi scappavano, come coniglietti con la coda tra le gambe. Ma alla fine ognuno, prima o poi, doveva collegare la propria vita a una casa, per invecchiare insieme ai suoi stessi sentimenti.
Presi una candela e la lanciai sul tavolo: il materiale incandescente attorno allo stoppino si aggrappò al legno, con uno scintillio veloce, per poi diffondersi e creare un organo di fiamme, che salivano e scendevano a un ritmo irregolare.
Mi si mozzò il fiato in gola. “Stupido, stupido! La mamma non spegnerà mai il fuoco.” Abbassai lo sguardo sulle mie mani tremanti, in un attimo di paralisi, poi mi riscossi e corsi in camera a prendere il violino. Era sul comodino, protetto dalla sua custodia di legno. Lo afferrai e mi precipitai verso la porta ma, quando ero a un paio di metri dall’uscita, una mano si aggrappò al mio braccio. – Dove stai andando, Ethan? – piagnucolò Grimby. – Vieni, aiutaci a spegnere le fiamme!
Guardai oltre la mia spalla: la mamma era corsa a rifugiarsi in corridoio, e fissava il pavimento senza nemmeno una goccia di ansia negli occhi, mentre Roan sbatteva la sua felpa sul tavolo per soffocare il fuoco. Che schifo. Lei pensava solo a salvarsi la pelle e il suo bambino doveva fare tutto al posto suo.
Mi divincolai dalla presa di Grimbald e mi fiondai fuori. – Ethan, Ethan, dove stai andando? – gridò. – Ethan, cos’hai?
-Non ne posso più di questa casa. Non ne posso più di questa famiglia.
Gli sbattei la porta in faccia e me ne andai.